ARANCIA AZZURRA: LA SCULTURA
Nel mese di febbraio del 1990 venne a mancare mia madre. Quel forte dolore, in un primo tempo, mi rese pressoché insensibile. Ma nella mano, da allora, il contatto unico, tuttora vivissimo, che per un attimo ebbi – lei sul letto di morte e oramai di pietra – con la sua fronte, la sua faccia che nel giro di pochi giorni sarebbero diventate niente più che nulla.
Ero più solo di prima. Era diventata sorda tanta parte di me. Riuscivo però a sentire benissimo tutte quelle cose che prima non udivo, non conoscevo. Camminavo facendo tre passi avanti e due indietro, con la memoria del quarto passo giravo attorno al terzo per legarlo a me e non farmelo scappare. Nella mia vita c’era meno passato e più presente. Un presente più pesante, più pieno, radicato. L’istante dilatato all’infinito cominciò a correre rotolando a valanga. Il bisogno di non fare pittura, la necessità di fare scultura. A poco a poco, in mezzo a tante difficoltà di realizzazione, l’Arancia azzurra di terracotta prese consistenza, e come un frutto maturo, al tempo giusto, me lo ritrovai tra le mani. Quale protagonista poteva essere più indicato in un anno che si era aperto in modo tanto struggente? La sola pittura circoscritta al solo mese di agosto e ad una dozzina di tele con paesaggi sospesi tra cieli e mari indistinti, prevalentemente grigi. In novembre, tra incomprensioni e altrui noncuranza, fui totalmente partecipe di pagine terse come il mare del nord. Eteree, incantate. Prive di tutte le emozioni che non fossero quelle provate dall’acqua quieta che riflette se stessa, dalle estremità di un cielo curvo che abbraccia un mare piatto e senza fondo. File e sequenze di bianchi come assopiti desideri di luce, piccioli stellari cui chirchiriddi 'nturciniati che erano uguali a riverberi su metalli preziosi; onde oblique, bloccate; colori come eco di pennellate mute, frammenti chiusi che sbocciavano sulla sovrapposizione di una linea; progressive, isolate verticalità. Cosa non fu mai la mostra di Arance azzurredi terracotta! Riuscii a creare quello spazio-tempo indefinibile tra cielo e mare in mezzo al quale rimasi, contento di farlo, ad aspettare ogni evento o, indifferentemente, la loro totale diserzione. Pur contenendolo ero dentro quel labile confine tra tutto e nulla.
Mi lasciarono solo a preparare la mia esposizione, e ne fui felice.
All’inizio non sapevo come l’avrei sistemata. Non sapevo dove mettere le mani, ma di ciò non mi preoccupai minimamente. Tante volte cambiai di posto le sculture, mi misi a giocare a scacchi con esse. Dopo seppi che stavamo tutti quanti giocando dalla stessa parte contro nemici subdoli e meschini: il disordine mentale, la precarietà, la faciloneria, la filosofia dell’uno vale l’altro tanto è lo stesso.Non ero agitato, ero solo con le mie arance. Potevo abbracciare lo spazio tutto della galleria e non solo le pareti. Anzi, la galleria cominciò a collaborare attivamente cambiando, senza consumare lentezza, i suoi connotati per conformarsi, così da non recare disturbo, a tutto quello che non aveva nessuna intenzione di atteggiarsi a dominatore assoluto, ma di nutrirsi soltanto, da poeta non belligerante e in perfetta armonia, di quell’aria che non respirava e che si affermava, o meglio si imponeva, come unico, silenzioso spazio vitale.
Solo quando capii che niente più doveva essere cambiato di posto, mi dissi, seduto a guardare, che avevo finito. Se avessi potuto, quella mostra, l’avrei lasciata lì per sempre. Era come io la volevo: Trasparente, equilibratissima. Pura sulla sommità di piedistalli tutti bianchi, di diversa grandezza e di diversa altezza. Una campagna, una muta città d’acqua. Gemiti di lava caldissima che il cielo aveva raffreddato e dipinto d’azzurro. Erano caduti ed erano rimasti lì, fermi, con gli occhi chiusi. In coro una sola, flebile nota: per sempre. Alberi da frutta sulla luna. Io, un gabbiano fermo a mezz’aria con le ali aperte, in attesa di veder muovere qualcosa. Arance che galleggiavano sulle onde e piccoli sassi di mare. Alcune affioravano appena, altre erano immerse per metà. Come un lago ghiacciato su un vulcano spento con tanti alberi attorno. Senza vento, le tenebre lontane. Splendide come ali di marmo sull’erba diurna bianca, verde, azzurra, unica. C’era il mare. Sì, c’era il mare, ma non era un mare mediterraneo, era un mare di montagne lontane, sulla cui superficie si elevavano picchi maestosi innevati. Come l’oblio di quel viaggio in aereo che in febbraio mi aveva portato da Milano in Sicilia. Come quel cielo che avevo visto verde, azzurro, limpido rosa all’orizzonte sopra le nuvole tutte bianche.
G.S.